Copertina del libro
Parabole? Aforismi? Novelle? o confessioni favoleggiate?
A lungo ho riflettuto e fatto arrovellare diversi amici per trovare una definizione a questi brevi scritti.
Poi mi sono reso conto che la cosa aveva scarsa rilevanza ed anzi era contraria allo spirito del lavoro.
Se la comunicazione e l’apprendimento comportano un processo di allontanamento dalla realtà, è facile intuire quanto dcvii dall’essere qualsiasi sforzo di classificazione.
Anche raccontando trasfiguriamo il mondo fenomefico, eppure, in questo caso, nel modo di farlo c’è spesso già parte della verità che ci sfugge e che mai afferreremo.
Fin da bambini, quando ascoltavamo raccontare, nella narrazione avvertiamo che c’era qualcosa in più oltre al compreso.
Forse ciò che non veniva e non viene càpito è la distanza che intercorre tra la vita, che è il presente, e il sogno, onirico o no, che è sempre; sempre come i sentimenti che sussistono in tutti gli uomini.
Questa convinzione, insieme alla pigrizia e all’amore per la metafora e l’analogia (processi mentali che, espressioni di un’immanente idealità, scavalcano il quotidiano senza troppo discostarsene), talvolta mi ha indotto a richiamare il mito, a servirmi della sua forza evocatrice.
Il mito, rozzo e atavico desiderio di comprendere l’intima oggettività delle cose, cela storie simboleggianti problemi eterni — proprio perché esistenziali — che non hanno mai avuto una risposta e che inutilmente, oggi, ci affanniamo a rimuovere.
Nel tentativo di creare un Io atemporale ho provato a cristallizzare concetti e ancor più sensazioni rivestendoli indifferentemente di immagini nuove ed antiche, ma soprattutto di una patina, la forma narrativa, in ogni caso mitologica e tale da riportarci vicino a quel velo che, ai primordi, è stato steso per tenere irrimediabilmente separato il conosciuto dal vero.
I messaggi a volte sono molto personali, ma tuttaviacoltivano l’illusione di rientrare nel passato leggendario racchiuso nella nostra anima e da scoprire nel racconto. - Pierfrancesco Zen